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È un ovale oppure un cerchio?

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L’ambiguità comportamentale è forse una delle forme più diffuse ed efficaci per indurre nelle persone, di solito involontariamente, stati di malessere, ansia, paura, aggressività e depressione, sia al lavoro che in famiglia.

Il primo ad accorgersene fu Ivan Pavlov, medico ed etologo russo, che a cavallo tra otto e novecento con i suoi studi sul condizionamento gettò le basi della psicologia sperimentale. Egli, infatti, fu in grado attraverso un sistema di premi e punizioni di addestrare dei cani a riconoscere la differenza tra forme geometriche, in particolare a distinguere il cerchio dall’ovale. Poi portò al limite il suo esperimento, mostrando ai cani delle forme che mutavano progressivamente da cerchio a ovale e viceversa: i poveri cani, non riuscendo più a compiere una scelta in modo sicuro e temendo la crudele scossa elettrica punitiva (eh si, purtroppo all’epoca i metodi erano quelli), mostravano delle reazioni complesse che andavano dall’isolamento, che potremmo definire depressivo, fino a reazioni aggressive verso gli altri cani o verso la gabbia o addirittura verso se stessi. Pavlov aveva di fatto indotto nei suoi cani quella che all’epoca venne definita nevrosi sperimentale.

Non è dissimile da ciò che accade a ciascuno di noi quando subiamo la crudeltà dell’ambiguità, che ci viene propinata sotto forma di comportamenti contraddittori e comunicazioni poco chiare: parole di rifiuto accompagnate da carezze, ammiccamenti di complicità seguiti da rimproveri, rassicurazioni sui livelli di prestazione richiesti condite da biasimi sul risultato poi ottenuto.

La lista di esempi potrebbe essere lunga e invariabilmente ci troveremmo a fare i conti con le forti reazioni emotive delle povere malcapitate vittime, che subiscono il capo esigente ma sbrigativo e confuso, oppure il genitore predicante e mal razzolante, oppure l’amante presente ma evitante. Persone che spesso non si curano, come dovrebbero, di offrire, ad esempio, informazioni esaustive e coerenti, oppure di comportarsi realmente secondo i dettami morali a cui fanno riferimento.

L’impossibilità della scelta che deriva dall’interagire con queste persone produce in noi un misto di sentimenti che non ci rende diversi dai poveri cani di Pavlov. Però, al contrario di loro, fortunatamente possiamo pretendere più chiarezza, più informazioni, più coerenza perché non siamo imprigionati in una gabbia. 

Sempre che quella gabbia non sia nella nostra testa, ovviamente.

 

Daniele Baron Toaldo

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Costruire routine di valore

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Volendo dare una definizione, possiamo dire che le routine sono dei modelli di azione prestabiliti, che si sviluppano come risposta alle necessità di gestione della complessità della vita.

Le routine, in tal senso, sono quindi degli stratagemmi, più o meno originali, che ci consentono di mettere ordine e semplificare la nostra quotidianità, personale e delle persone con cui ci relazioniamo frequentemente. Ogni routine è caratterizzata da ripetitività e rigidità e, il più delle volte, si genera spontaneamente, nel senso che non l’abbiamo pianificata, ma semplicemente nasce nella interazione con coloro che ci accompagnano nella giornata (familiari, colleghi, amici, ecc.), oppure nascono nel tentativo, altrettanto spontaneo, di orientarci e trarre il meglio dalla gestione di tutte le cose che dobbiamo o vogliamo fare.

Quindi, le routine possono essere:

  • Personali o collettive
    Buona parte delle routine sono collettive, ovvero sono schemi comportamentali di gruppo che condividiamo con un numero ristretto di persone, che si sono generate attraverso interazioni ripetute e che, dopo un accomodamento progressivo, si sono strutturate e, diciamo così, cristallizzate. In realtà, la maggior parte delle routine sono collettive e questo è il motivo per cui spesso risultano più stabili, rigide e, quindi, difficili da modificare. Questo di per sé può essere un limite, ma in determinate condizioni, come vedremo dopo, può essere di grande aiuto per limitare la procrastinazione.
  • Generate dall’interno o assimilate dall’esterno
    Man mano che cresciamo, passando dall’infanzia all’età adulta, vi è un graduale passaggio da routine che ci vengono proposte dall’esterno e assimiliamo il più delle volte passivamente, che servono alla crescita dell’individuo, come delle guide per l’apprendimento, a routine che generiamo in prima persona, senza accogliere modelli preconfezionati che derivano dall’ambiente familiare e sociale. Ovviamente, tale passaggio non comporta necessariamente l’eliminazione delle routine precedentemente acquisite: spesso, infatti, abbiamo abitudini che ci accompagnano per tutta la vita, o che riemergono nel momento in cui le condizioni di vita si ripetono, ad esempio quando creiamo a nostra  volta una famiglia.
  • Consapevoli o inconsapevoli
    La maggior parte delle routine derivano da atti spontanei di gestione di ciò che ci accade ogni giorno, rappresentando un’àncora nella vita quotidiana, che ci dà stabilità e sicurezza. Questi atti spontanei di gestione fanno parte del bagaglio di competenze di vita che abbiamo assimilato crescendo e la “naturalezza” che li contraddistingue fa si che la memoria del perché siano emersi e del come si siano strutturati in una routine si perda tra le pieghe del tempo: il risultato è che ci troviamo ogni giorno ad agire in modi ripetitivi senza sapere perché e senza nemmeno renderci conto che stiamo agendo in modo strutturato e ripetitivo: agiamo, appunto, in modo inconsapevole, seguendo come automatismi di cui abbiamo scarsa coscienza o sui quali non focalizziamo l’attenzione.
    È possibile, però, creare delle routine in modo consapevole, agendo in modo ragionato per strutturare dei modelli di azione che siano funzionali a degli obiettivi di cambiamento.
  • Finalizzate o prive di scopo
    Intendiamoci, tutte le routine hanno una funzione, o perlomeno ce l’avevano in origine: come detto, servono da guide all’apprendimento in età evolutiva, aiutano a controllare l’ansia offrendo schemi di comportamento ripetitivi, consentono di guadagnare tempo sincronizzando più persone, e molto altro. A volte però, diventano disfunzionali, ovvero non più utili alla vita attuale, come certi oggetti che continuano a occupare spazio in casa pur avendo ormai esaurito la loro funzione. In quel caso, lo scopo si smarrisce e le routine producono l’effetto anche opposto rispetto a quello per cui erano nate. Inoltre, se sono per di più inconsapevoli, possono risultare ancor più dannose, poiché divorano spazio e tempo nella vita delle persone, come certi files inutili che nel computer mangiano memoria senza che tu li veda. Sarebbe bene, quindi, che le routine fossero consapevoli (e per renderle tali a volte è necessario un professionista) e avessero una funzione attuale, in modo da essere realmente efficaci.
  • Temporizzate o illimitate
    Generalmente le routine non includono una data di scadenza: semplicemente esistono e si riproducono come se non ci fosse un domani, anche se del doman non v’è certezza e non sappiamo se allora saranno ancora utili. Alcune routine, però, possono essere a termine e, se lo sono, generalmente è perché sono legate a degli scopi chiari.

Quindi, quali sono le routine di cui abbiamo bisogno per la nostra salute e per i miglioramenti che desideriamo produrre? Ecco uno spunto per individuarle.

  1. Fai un elenco delle routine
    Come primo passo, è utile fare un elenco di tutte le routine che fanno parte della tua quotidianità privata e professionale e chiediti se siano ancora attuali e se rispondano ai criteri elencati.
  2. Verifica che le routine rispondano a questi 4 criteri
    Partendo da quanto detto, possiamo affermare che le routine più funzionali al cambiamento debbano essere consapevoli (a tutte le persone coinvolte in esse), finalizzate e temporizzate; non è necessario che siano create completamente dall’interno, ma è bene avere parte attiva nella loro generazione.
  3. Elimina o modifica le routine anacronistiche
    Se nella check list potrai dire, per ciascuna routine, di aver spuntato tutte le voci, allora la routine potrà essere mantenuta, altrimenti sarà necessario agire per modificarla o eliminarla.
  4. Fissa almeno un obiettivo
    Focalizzare l’attenzione su uno o due obiettivi che desideri raggiungere nel medio periodo (all’incirca sei mesi) e immagina almeno una nuova routine che possa essere funzionale a quegli obiettivi.
  5. Genera dei vincoli
    Immagina un vincolo temporaneo che si tramuti in una sorta di obbligo utile a mantenersi saldi nell’intenzione (spesso, infatti, le nuove buone abitudini svaniscono perché non sono ben strutturate). Buoni vincoli sono quelli di natura sociale (faccio la cosa con qualcuno o dichiaro a molte persone la mia nuova routine), oppure di natura economica (per eseguire la routine ho sostenuto dei costi). Alla base dell’efficacia di questi vincoli ci sono due fenomeni psicologici: la prima tipologia si basa sulla leva persuasiva dell’impegno e della coerenza (una delle sei leve persuasive individuate in ambito comunicativo), mentre la seconda tipologia di vincoli si basa sul processo cognitivo decisionale denominato euristica dei costi sommersi (ma di questi due fenomeni parleremo prossimamente in altri articoli).

Cercherò di rendere più chiaro quanto detto fin qui attraverso un esempio personale.
Avevo la necessità di lavorare su tre differenti obiettivi:
1. comunicare in modo diverso con voi;
2. migliorare il mio modo di scrivere;
3. studiare con una frequenza regolare.

Nonostante numerosi tentativi infruttuosi, tutti caratterizzati dall’adozione del “metodo della forza di volontà” (altamente inefficace), ho deciso di crearmi un vincolo, che includesse anche una piccola sfida: ideare un appuntamento quotidiano di dialogo che mi obbligasse a prepararmi adeguatamente per poterlo gestire, costringendomi, quindi, anche a studiare regolarmente e a scrivere di più. Da qui è nato il “Caffè con lo psicologo”, un appuntamento quotidiano di 15 minuti al mattino (dal 6 febbraio, dalle 8.00 alle 8.15, su Zoom), che per me non è altro che una bella routine che risponde a tutti i criteri elencati; una routine forte, poiché si sorregge anche sull’impegno con voi. Una buona sveglia per iniziare bene la giornata!

E voi, di quale nuova routine avreste bisogno?

 

Daniele Baron Toaldo

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Vita deprivata e Covid

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Alla fine ci siamo. 

Anche le persone più resistenti, stanno cominciando a vacillare. Dal mio osservatorio clinico sto cominciando a vedere che anche coloro che hanno numerose risorse interiori, affettive e relazionali stanno accusando il colpo di oltre un anno di deprivazione. 

Avevano tenuto gli argini fino a Natale, ma ora la fatica comincia a essere tanta. Sempre più persone, di differenti estrazioni e fasce d’età, chiedono aiuto per i motivi più disparati, spesso non rendendosi conto che buona parte del loro disagio è riconducibile alla condizione di perdurante deprivazione che stiamo tutti vivendo. 

Una deprivazione che si può declinare in vario modo:

    • deprivazione sensoriale, data dai dispositivi di protezione: mascherine, visiere, tute, guanti;
    • deprivazione emotiva, nello specifico del sentimento della gioia: siamo limitati nel vivere occasioni per accoglierla e generarla attraverso attività ricreative, culturali e sportive;
    • deprivazione affettiva e sociale, inutile fare degli esempi;
    • deprivazione lavorativa e identitaria: non so più chi sono, perché ciò che dava forma prima al mio essere, ora non c’è più;
    • deprivazione motoria e spaziale, in cui la libertà di movimento negata in modo progressivo (fino al punto di ritrovarsi in isolamento forzato in una stanza di casa poiché positivi alla malattia o, ancor peggio, in un reparto di terapia intensiva) può condurre a manifestazioni psicologiche paragonabili a quelle della sindrome del prigioniero;
    • deprivazione del sonno, originata dalle rimuginazioni e dalle ansie del quotidiano, con effetti sull’attenzione diurna e sull’equilibrio emotivo.
    • deprivazione informativa: lo stato di incertezza su ciò che sarà, inibisce i progetti di vita e di lavoro futuri.

L’elenco potrebbe essere ancora lungo e gli studi scientifici che hanno approfondito gli effetti negativi della deprivazione sono numerosissimi. Sappiamo, ad esempio, che la deprivazione affettiva e sociale può incidere sullo sviluppo cognitivo e sulle abilità relazionali in fase evolutiva (bambini e adolescenti); sappiamo che una deprivazione sensoriale, può generare condizioni psicologiche ansiose e ossessive; sappiamo che una deprivazione identitaria e di scopo può condurre a stati depressivi profondi.

A ciò aggiungiamo che abbiamo paura, per noi e per i nostri cari, per la salute e per il sostentamento. La paura e la deprivazione le avvertiamo anche quando non ci stiamo pensando, e c’è sempre la possibilità che qualcosa o qualcuno ci rimandi con la mente e l’animo a quelle condizioni. Ne parliamo spesso, cercando di esorcizzarle, esternando le preoccupazioni e le rabbie, alla ricerca di quell’effimero effetto catartico e taumaturgico che la condivisione delle pene produce. Ma ciò che resta, lo sappiamo, è il senso di frustrazione dovuto al fatto che la maggior parte delle cose che facciamo e desideriamo fare si scontrano con un “però” o un “ma”: “esco, ma… […il Covid…]”, “fai, però… […il Covid]”, “vediamo, ma… […il Covid]”.

Viviamo in uno stato di allerta che si rigenera quotidianamente e che trova nella mascherina un potente attivatore simbolico: infatti, nell’istante in cui la indossiamo è come se pigiassimo un pulsante di avviamento, che dà alimentazione alla catena di associazioni mentali, più o meno consce, che conduce ai nostri sentimenti e ai nostri pensieri legati alla pandemia. C’è, infatti, chi a volte evita di indossarla, non per negare l’esistenza del Covid, bensì per evitare almeno una volta di attivare dentro di sé questo processo. (Però, non vi consiglio di farlo, poiché si tratta di un beneficio illusorio: la catena si attiva comunque, in quanto il tentativo di evitamento di un oggetto porta in ogni caso a pensare all’oggetto evitato. È come se vi chiedessi: non pensare a un elefante!).

Oramai, possiamo affermare, in modo apparentemente paradossale, che non desideriamo la fine della pandemia, desideriamo la fine della deprivazione.

Ma, attenzione! Oltre ai sintomi già elencati, il rischio grande a cui andiamo incontro quando viviamo uno stato di deprivazione, è il senso di impotenza: meglio sarebbe dire, tecnicamente, l’impotenza appresa. Ovvero, quella condizione psicologica di rassegnazione e rinuncia, in cui le frustrazioni ripetute e i tentativi vanificati, mi hanno “insegnato” che non c’è nulla da fare, se non vivere passivamente una realtà disagiante apparentemente non modificabile dalla mia azione.
In parte è vero che, ora come ora, molte cose siano fuori dal nostro controllo diretto, ma il pericolo di maturare dentro di noi la convinzione che la risposta definitiva alla frustrazione e all’incertezza debba necessariamente essere l’immobilità, è concreto.

Anche perché dobbiamo ricordare e sapere che alcune certezze le abbiamo.

La prima è che la pandemia finirà, portandosi via molto, ma finirà. 

La seconda è che gli stati di deprivazione non producono solo disastri: uno stato temporaneo di deprivazione (seppur prolungato), consente di vedere quali siano i limiti della nostra abitudine e il potenziale delle nostre risorse interiori. Ci permette di vedere su cosa ci siamo appoggiati, o addirittura adagiati, in tempi non deprivati: su quali certezze, su quali relazioni, su quali comportamenti abbiamo costruito la nostra vita routinaria. Può apparire strano, ma alcuni fondamenti del nostro esistere possono diventare gradualmente invisibili alla mente e al cuore, come le fondamenta di una casa scompaiono alla vista degli occhi. Fino a quando uno scossone non le riporta in evidenza, facendoci rendere conto di quanto le avessimo date per scontate e costringendoci a riconsiderare delle priorità: cosa è realmente importante per me e per le persone con cui condivido l’esistenza?
Uno stato di deprivazione inatteso ci costringe a rimetterci in gioco, per ricercare nuovi equilibri, obbligandoci ad attingere alle nostre abilità e a ricercare nuove risorse: ci rimette in movimento, facendoci rendere conto di quanto la stabilità includa inevitabilmente anche le zavorre. Potremmo, quindi, anche cercare volontariamente degli stati di deprivazione, per spingerci a migliorare, focalizzandoci sulle cose importanti e ripulendoci dalle incrostazioni delle certezze consolidate. Ricordo un’espressione divertente che girava tra le mie amicizie di un tempo: “una pietra che ruzzola non fa muschio”.

La terza certezza (e direi ultima) è che quando uno stato di deprivazione (volontario o meno) è in essere, dobbiamo sforzarci di usarlo, di spremerne tutto ciò che di positivo porta dentro di sé, anche se alle volte ci sembra poco. Dobbiamo impegnarci molto nel farlo, soprattutto adesso, perché se non lo facciamo sarà lui a spremere noi.

Buone spremute

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Lo smart working e il lavoro per obiettivi

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Mi è capitato frequentemente negli ultimi mesi di sentire associato lo smart working con il concetto di lavoro per obiettivi, come se svincolandosi dall’orario di ufficio le persone cambiassero automaticamente l’approccio alla propria quotidianità professionale.

Prescindendo dall’ovvia considerazione che lavorare da casa non è necessariamente una soluzione smart, perché frequentemente la casa non è strutturata per eseguire efficacemente le proprie mansioni, è vero però che questo offre la possibilità di organizzarsi con maggiore autonomia e potenzialmente di avere un work life balance migliore. Ma il punto fondamentale è che queste opportunità di riorganizzazione offerte dal telelavoro non devono essere confuse col lavorare per obiettivi.

La maggior parte delle persone, infatti, non lavora per obiettivi, ma si limita a svolgere un insieme di compiti assegnati e confondono l’esecuzione dei compiti col raggiungimento di obiettivi; anche chi dà l’incarico ad altri di eseguire dei compiti, generalmente ritiene di aver assegnato degli obiettivi da raggiungere, ma in realtà ha semplicemente chiesto di “fare delle cose”. Questo succede perché il più delle volte non siamo addestrati nell’intendere il nostro operato come orientato ad un fine. La frammentazione dei processi  (produttivi, ad esempio) e l’assegnazione di specifiche competenze spesso allontana le persone della visione d’insieme, non consentendo loro di comprendere il legame dei propri compiti con quelli eseguiti da un altro ruolo ad un altro livello; per cui, alla lunga, la persona inizia a considerare le attività che ha svolto come fossero degli obiettivi raggiunti.

Per capire meglio la questione è necessario, a questo punto, chiarire cosa si possa intendere per obiettivo. Le definizioni che possiamo ritrovare sono numerose, ma quella che più mi piace utilizzare è questa:

Un obiettivo è la descrizione del cambiamento che desideriamo ottenere.”

Il cambiamento che descriviamo come nostro punto di arrivo, nasce prima dalla valutazione approfondita di un contesto che riteniamo essere perfettibile e, in seguito, diventa generativo di una serie organizzata di azioni (che possiamo anche raggruppare in sequenze coerenti, che chiamiamo strategie), composte da compiti specifici. In questo modo, l’esecuzione dei compiti mi avvicina progressivamente al cambiamento che è stato definito come auspicabile-necessario per il miglioramento delle condizioni pregresse.

Possiamo delineare obiettivi più concreti, oppure salire di livello descrivendo degli obiettivi più astratti: maggiore è il livello di astrazione, più ispirante e onnicomprensivo sarà l’obiettivo, includendo vari sotto obiettivi concreti con esso coerenti. Ad esempio, potremmo definire due obiettivi concreti, come “rendere più efficiente lo smaltimento di componenti elettrici e/o elettronici” e “migliorare i processi produttivi in termini di consumo elettrico”, includendoli all’interno di un progetto di cambiamento più ampio descritto con l’obiettivo astratto “ridurre l’impronta ambientale dell’azienda”. 

Quindi, se una persona si trova coinvolta nell’esecuzione di uno specifico compito (ad esempio legato allo smaltimento dei rifiuti, come la “classificazione e suddivisione degli oggetti elettronici”), ma non vede i collegamenti del suo lavoro con degli obiettivi concreti e/o astratti, non può comprendere a fondo il senso del suo operato. Il giudizio che la persona darà sull’attività che sta svolgendo, inoltre, cambierà se che conoscerà il fine ultimo di ciò che sta facendo: ovvero, potrà essere più motivata capendo a fondo il valore astratto della sua attività. Inoltre, sarà nella condizione potenziale di offrire un contributo creativo al miglioramento del processo di cambiamento in cui è coinvolta, poiché vedrà le connessioni tra le attività assegnate a lei e ad altri ruoli, a differenti livelli. 

Se lavorassimo realmente per obiettivi, avremmo a disposizione un disegno complessivo del nostro operato e di quello degli altri, con un orientamento congiunto degli sforzi di tutti verso direzioni specifiche, come linee che convergono nel punto di fuga di un quadro prospettico. I singoli compiti verrebbero visti per ciò che sono, ovvero delle singoli porzioni essenziali di un progetto più ampio. 

Nella maggior parte dei casi, invece, ci ritroviamo ad eseguire insiemi di compiti affastellati gli uni sugli altri, sui quali veniamo valutati in base alla bontà relativa dell’esecuzione e in base al tempo di espletamento delle attività. La variabile tempo, quindi, diventa fondamentale per definire il quantitativo di compiti che possono essere assegnati ad un individuo in una giornata di lavoro. Più ne fai in una determinata finestra temporale (ad es. otto ore), meglio è: poco importa che abbiano un senso coerente tra di essi o verso i compiti assegnati ad altri. Le conseguenze di questa logica lavorativa, le potete immaginare: frequentemente ci si trova di fronte a persone, o gruppi, demotivate e frustrate poiché hanno smarrito il senso del loro operato, non comprendono chiaramente i confini del proprio ruolo e vedono confusione e sovrapposizioni nella suddivisione delle mansioni con gli altri colleghi/gruppi.

Quindi, per passare da un approccio ad un altro non è sufficiente spostare l’ufficio a casa e offrire una certa libertà di gestione della giornata (seppur gradita e auspicabile). È necessario un cambio di approccio mentale: bisogna passare da una logica di misurazione quantitativa di attività eseguite in una finestra temporale, ad una logica di valutazione qualitativa di scopi coerenti tra essi.
Se non lo si fa, allora lo smart working non sarà altro che l’ennesimo recinto temporale, dipinto a colori brillanti, ma pur sempre un recinto all’interno del quale le persone continueranno a lavorare come hanno sempre fatto.

La sintesi di quanto detto è: cambiare il dove e il quando, non modifica il come.

 

Daniele Baron Toaldo

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UNDE MALUM? Dalla violentizzazione all’agire violento

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L’azione violenta non può essere mai giustificata.
Questa dovrebbe essere una posizione etica alla quale il singolo individuo e la società dovrebbero sempre sottostare. Ma, nonostante i filtri e gli argini che la società cerca di imporre per contenerla, essa si manifesta periodicamente e in varie forme, lasciandoci spesso sgomenti, impotenti, increduli. Ma anche arrabbiati, o addirittura compiaciuti: sì compiaciuti, perché spesso la violenza è dentro di noi e ne giustifichiamo e approviamo l’applicazione, se la reputiamo essere la soluzione più giusta in quel momento, lo strumento più adeguato per risolvere una situazione, pur non avendola agita direttamente, avendola ad esempio solo osservata da spettatori.

Parlare di violenza è sempre molto delicato, perché rimane comunque un comportamento umano ad oggi largamente oscuro, di difficile comprensione. Cercherò qui di offrire alcuni spunti, appoggiandomi alle formulazioni teoriche che sono state fatte dal criminologo americano Lonnie Athens. Criminologo che visse a sua volta un’infanzia non semplice e un’adolescenza violenta e che per questo motivo decise di studiare il tema, approfondendolo in modo diretto, andando a incontrare e a conoscere nelle carceri americane persone dal passato violento. Da queste sue indagini, si avviò un percorso di strutturazione di una teoria originale, il cui fulcro è il concetto di violentizzazione: la violentizzazione è un percorso di conoscenza, familiarizzazione e pratica della violenza, che la persona nel corso della sua esistenza intraprende, spesso al di là della sua volontà, poiché coinvolta suo malgrado in tragitti di vita difficili.  Processo che porta la persona a comprendere e a ragionare sul tema della violenza, e spesso ad agirla, avendola sperimentata e vissuta gradualmente. Gradualmente in fasi consequenziali, in un progressivo avvicinamento al mar nero della violenza, fatto di rivoli, rigagnoli e torrenti di rabbia sperimentata e agita con forza, per opprimere e reprimere. Quattro sono le fasi di questo sviluppo denominate da Athens: brutalizzazione (sottomissione violenta), belligeranza, prestazione violenta e virulenza. Vediamole.
La fase di brutalizzazione comporta che la persona nella sua crescita subisca un trattamento duro e crudele, tale da generare in essa un segno biografico profondo, una perdurante colonna narrativa di sé, un monolite portante della sua identità. Nella fase della belligeranza, la persona avvia un processo di analisi, comprensione e giustificazione, interiormente conflittuale, delle motivazioni che conducono all’atto violento (subìto in prima persona o in qualità di testimone), ponendo le basi per la prestazione violenta. In questa terza fase vi sarà il vero e proprio passaggio all’atto, dapprima motivato come forma di giusta reazione a quanto subito, secondariamente cronicizzato, grazie anche al prestigio e al rispetto che ne possono conseguire: è quest’ultima la cosiddetta fase della virulenza, in cui l’individuo decide di usare la violenza per attaccare e sottomettere l’interlocutore/avversario.

Decide di usare la violenza.

Il tema della decisione è fondamentale nella teoria di Athens, discostandosi in questo modo da quelle che sono le interpretazioni sull’impulsività inconscia o sull’azione predeterminata biologicamente. Per Athens, infatti, nel  momento in cui la persona si trova di fronte ad un’altra in una interazione conflittuale (ad esempio una discussione accesa o un litigio), intraprende un dialogo interno a sé, durante il quale valuta la situazioni secondo i parametri morali e le modalità di risposta interiorizzate nel corso della violentizzazione. Tale valutazione è ovviamente viziata dai trascorsi biografici e dalle riflessioni pregresse, in cui l’atto violento viene giudicato come l’unica soluzione possibile per risolvere la situazione conflittuale, come un’arma letale che pone fine ad una guerra.

In termini generali, sempre secondo Athens, le motivazioni contingenti che scatenano l’azione possono essere varie:

  • difesa: la persona può sentire minacciata la sua integrità o quella del gruppo di appartenenza, da un punto di vista fisico o identitario. La paura della frantumazione di sé induce all’aggressione; 
  • frustrazione: la persona sente preclusa la possibilità di perseguire i propri obiettivi, trovandosi di fronte ad un’opposizione forte, ostinata e apparentemente invalicabile in altro modo;
  • interpretazione malefica: qui c’è l’attribuzione invertita del ruolo di vittima, in cui l’interlocutore viene vissuto come malvagio, poiché giudicante verso la persona e svilente della sua dignità, quindi meritevole di essere aggredito violentemente.

La persona che agisce violentemente può sentirsi, quindi, a sua volta minacciata: può percepire in pericolo la sua identità, il suo status, le sue relazioni, le sue idee, il suo gruppo di appartenenza, e ciò che fa di fronte alla minaccia è applicare la strategia risolutiva che ha imparato a conoscere e a praticare nel tempo. Per cui l’azione violenta non è un gesto estemporaneo e inconsulto, bensì l’esito di un percorso di affinamento che viene da lontano, l’esito di una valutazione conscia, spesso talmente rapida da apparire automatizzata.

Certamente, leggendo, fino ad ora ciascuno avrà visualizzato nella propria mente immagini di atti cruenti di cui spesso sono piene le cronache: pestaggi, omicidi, torture, stupri.

Non possiamo, però, eludere da questa riflessione la nostra quotidianità violenta, che non necessariamente porta all’utilizzo della forza fisica brutale, che potrebbe essere considerata un’eccezione, ma che ci conduce frequentemente ad interagire col prossimo in modo aggressivo: diverbi accesi in famiglia, litigi al semaforo, insulti dalla tastiera, imprecazioni verso colleghi, minacce verso minori. Aggiungete voi degli esempi.
Ciascuno di noi, infatti, ha vissuto in varia misura un piccolo processo di violentizzazione, più o meno significativo per la propria identità, che ha contaminato il proprio animo con il seme della risoluzione violenta. Questo semplicemente perché la soluzione violenta fa parte del sedimento culturale della società nella quale siamo cresciuti.

Cosa fare?
Prestare attenzione e credere
.
Prestare attenzione quando applichiamo la soluzione violenta, arginandola ed evitando di diffondere il seme, e usare le nostre potenti abilità creative per cercare soluzioni alternative, anche dove non crediamo ve ne siano.

Concludo con una nota positiva: fortunatamente, lo si creda o no, secondo alcuni autori viviamo complessivamente nell’epoca meno violenta della storia dell’uomo, probabilmente “l’era più pacifica della nostra specie”, in cui il livello di tolleranza verso l’uso della brutale violenza è bassissimo. È forse per questo motivo che oggigiorno viene dato un forte risalto a tali episodi, e ciò non può che essere un bene.
L’evoluzione umana non produce solo mostri: il sedimento culturale si può cambiare.

Se siete interessate/i ad approfondire i temi trattati vi consiglio due letture:

  • Richard Rhodes “Perché uccidono. Le scoperte di un criminologo indipendente.” (rif. a Lonnie Athens, ndr)
  • Steven Pinker “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”.

Buone letture.

Daniele Baron Toaldo

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Chi ha tempo non perda tempo

By | articoli, Psicologia e proverbi

Questo famoso proverbio italiano ci invita a non procrastinare gli impegni e ad agire. Ma cosa significa “procrastinare”? Significa rimandare a un giorno successivo, spesso non si sa quale, un’azione. Spesso si finisce che alcune azioni le faremo “il giorno del poi nell’anno del mai”. Almeno una volta nella vita avrete procrastinato scelte, decisioni, azioni, il più delle volte difficili, o ritenute tali. Iniziare la dieta, riordinare la soffitta, buttare i vecchi vestiti, aggiornare il curriculum, smettere di fumare…La risposta che ci diamo per continuare a procrastinare è la non urgenza dell’azione, la pesantezza, la non voglia. Allo stesso modo ci stiamo auto boicottando. 

Alcune volte si procrastina scegliendo un piacere immediato seppur fugace. Pensiamo ad esempio quando al lavoro, prima di iniziare, guardiamo Facebook o altri social network piuttosto che iniziare di buona lena la relazione che sappiamo di dover fare. 

Altre volte può essere la paura di fallire che ci fa rimandare ad oltranza un impegno. Ad esempio dover chiedere un aumento, un giorno di ferie. Così facendo però la paura aumenta mettendoci magari anche nella condizione di non avere più tempo per poter realizzare in modo efficace il nostro impegno. La paura in realtà è come una sorta di nube; quando la si prova a prendere scompare. Basta allungare la mano ed essa rimarrà vuota.

A volte si può incappare nell’errore di sottovalutare il tempo necessario per compiere una serie di azioni. Altre volte tendiamo a rimandare perché abbiamo le idee confuse, non sappiamo da dove iniziare, cosa fare. Immaginiamo uno studente che rimanda ad oltranza l’inizio dello studio per un esame ritenendo di poter studiare efficacemente in poco tempo. Oppure il tempo per preparare le valigie, chissà perché pensiamo sempre di riuscire a prepararle in poco tempo, rimandando così l’operazione. 

Quindi? Ecco alcuni spunti:

1. indicare su fogli mobili le possibili azioni, senza un ordine preciso, scrivendole di getto, senza valutarle. Solo in seguito spostare i vari foglietti secondo una sequenza temporale d’azioni.

2. fissare un tempo definito per svolgere una certa azione, senza considerare di doverla necessariamente terminare. Spesso la vera difficoltà è nell’iniziare un’azione, nel dover uscire dall’immobilità; poi si crea quasi un effetto palla di neve, per cui la “pallina di neve” rotolerà quasi automaticamente divenendo una valanga.

3. porsi un premio al termine dell’azione da svolgere. Il premio deve essere vicino nel tempo e molto attrattivo per essere motivante. Ad esempio un’uscita con gli amici, la visione della nostra serie preferita…

E allora, chi ha tempo non perda tempo e fateci sapere se almeno una volta siete riusciti a non procrastinare.  

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Le costanti della vita

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Cos’è una costante?
Nel linguaggio scientifico è una quantità o una grandezza invariabile; qualcosa che non muta, aldilà del tempo e dello spazio, un elemento indipendente da ogni altro parametro o entità, un caposaldo, un punto di riferimento per ogni altro tipo di calcolo o teorizzazione (la costante di Pitagora, la costante di Avogadro, la costante di Planck, l’elenco è lungo).

La nostra quotidianità è fatta di costanti: modi di pensare e di comportarci, che sono diventati parte di noi, del nostro “carattere”, delle nostre relazioni, della nostra identità individuale, familiare o comunitaria. Le costanti sono importanti perché ci consentono di avere dei punti di appoggio sull’ignoto, degli appigli saldi per procedere nella scalata della montagna. Spesso le utilizziamo, altre volte non ci accorgiamo nemmeno della loro presenza: loro “sono“, “esistono“, fanno parte del quotidiano e ci consentono di andare avanti.
Le costanti della vita spesso le chiamiamo verità, valori, convinzioni, abitudini, oppure vizi o automatismi, e senza di esse ci pare spesso non sia possibile vivere: come si può vivere senza la passione? Come si può immaginare di votare quella persona? Come posso credere che le colleghe mi ascoltino? Come farò a superare la giornata senza sigarette? Come si può vivere senza Nutella? Tutte certezze che si manifestano in frasi quali: “Per ottenere risultati devi metterci l’anima”, “si fa in questo modo“, “sono sempre stata timida“, “lui non capisce, perché è un impulsivo“, “non possiamo vederci tutti assieme, lei si sentirebbe sotto processo”.

Come si può capire, ciascuno di noi ha le proprie costanti: le reputiamo immutabili e giuste, e anche se “razionalmente” possiamo ammettere a noi stessi che non siano assolute, il più delle volte facciamo fatica a crederlo. Sono e saranno, esistono ed esisteranno, così come ora per sempre. Tanto che spesso facciamo in modo che si mantengano, ad ogni costo, perché siamo convinti a tal punto della loro immutabile necessità, da non essere in grado di abbandonarle, di metterle in discussione, scordando, o fingendo di non sapere, che in realtà i pensieri e i comportamenti non sono delle costanti. Non sono come il numero di Avogadro o il sole che sorge ogni mattina. Sono, al contrario, mutevoli e noi possiamo incidere attivamente per mutarli. Anzi, dobbiamo farlo! Quasi fosse un imperativo, nel momento in cui ci rendiamo conto di essere infelici, dobbiamo agire poiché la nostra infelicità di quel momento è legata anche alle costanti di quel momento. Non possiamo modificare lo stato delle cose se non costruiamo in noi il coraggio di modificare le costanti che mantengono la nostra quotidianità uguale a se stessa, istante dopo istante, anno dopo anno.

Per farlo, ci dobbiamo impegnare ogni giorno nell’osservazione di noi stessi: come ci comportiamo, come reagiamo alle cose, in che modo giudichiamo noi stessi e gli altri, quali opinioni non siamo disposti a modificare, quali cose riteniamo essere state sempre uguali a se stesse. Una volta accesa questa “telecamera” di osservazione su noi stessi, dobbiamo rischiare un po’, ovvero provare a introdurre qualche piccolo cambiamento: un capo di abbigliamento distante dal nostro stile, una risposta insolita a quel solito collega, una procedura eccentrica per cucinare quella pietanza, un modo diverso di descrivere nostro figlio o noi stessi. Partite dalle piccole cose, quelle più semplici, poi provate anche con ciò che ritenete “realmente” immutabile, come un vostro tratto caratteristico di personalità. Provateci come fosse un esercizio, una sfida con voi stessi: un processo lento, ma piano piano ciò che di positivo si potrà generare nella vostra mente, di fianco alla capacità di riflettere, sarà l’abilità di flettere, andando oltre quelle rigidità personali che ci precludono il cambiamento.

NB: ricordiamoci, comunque, che abbiamo sempre bisogno di appigli per salire in cima, cerchiamo solo di fare in modo che siano funzionali alla salita.

Daniele Baron Toaldo

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