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L’arte della presenza: come carpire l’attenzione del tuo pubblico

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Quando mi chiedono come si faccia ad attrarre l’attenzione delle persone che ti ascoltano, in genere rispondo che ci vuole, ovviamente, preparazione tecnica sull’argomento che vai trattando e l’abilità di illustrarlo con chiarezza, come se di fronte a voi aveste un pubblico di bambini; ma, soprattutto, ci vuole presenza, nello specifico presenza scenica.
La presenza scenica si potrebbe definire come quella capacità di far sì che tutti ci osservino e ci ascoltino attentamente anche se stiamo parlando una lingua sconosciuta. La stessa abilità messa in atto dai maestri del teatro di commedia, capaci di sostituire le parole con un insieme di fonemi simil linguistici, ma totalmente privi di senso: il cosiddetto grammelot, praticato magistralmente da Dario Fo e inventato dagli attori della commedia dell’arte nel ‘500. Questa tecnica fu messa a punto per poter comunicare mescolando vari idiomi e riuscendo a fare teatro in tempi di feroce censura.
La presenza scenica, quindi, ha poco a che vedere con la tipologia degli argomenti che stiamo trattando; ha poco a che vedere, in realtà, anche con il fatto che siamo o meno un attore o un appassionato di teatro.
Ha molto a che vedere, invece, con le abilità di gestione del proprio corpo,  della propria voce, dello spazio in cui siamo inseriti e con il tipo di rapporto che instauriamo con i nostri uditori. Troppo spesso ci dimentichiamo di questo, o forse evitiamo di pensarci, compiendo l’errore fondamentale che appartiene a quello che definisco “il parlante ingenuo”: immaginare che gli uditori presteranno attenzione solo alle parole che diciamo, per giunta interpretandone il senso allo stesso modo in cui lo intendiamo noi.
Ma sappiamo che non è così: non serve qui scomodare linguisti, grandi filosofi, psicologi e letterati, che hanno sviscerato a fondo il problema della comunicazione, per poter affermare che il senso e il potere di ogni nostra parola viene plasmato dal modo stesso in cui essa viene proferita. Ogni nostro movimento, espressione del volto o “coloritura” della nostra voce, vengono osservati dai nostri interlocutori e fatti rientrare all’interno del giudizio globale che essi potranno assegnare al nostro discorso e a noi come persone. Per cui, massima attenzione deve essere posta al modo in cui usiamo le nostre appendici (mani, braccia, gambe), a come dominiamo lo spazio in cui siamo inseriti, alla velocità del nostro eloquio, all’uso delle pause, allo sguardo rivolto ai nostri uditori, al fine di instaurare un dialogo con essi, con ognuno di essi.
Dobbiamo entrare in contatto col pubblico, come se ciascun componente della nostra platea fosse il solo presente in sala e fosse il solo a cui la nostra attenzione di narratore è rivolta. Ciò comporta un lavoro su noi stessi, sulla tendenza a rifuggire le interazioni umane, lo sguardo e le reazioni delle persone che ci ascoltano, immaginando erroneamente che rimanendo concentrati sul nostro testo e su ciò che vogliamo dire riusciremo ad essere più chiari ed efficaci. Il risultato di tale comportamento di evitamento, invece (ahimè), spesso si traduce in un velato distacco, che può essere recepito come freddezza e insicurezza: quando parliamo, infatti, il modo in cui esponiamo le cose incide anche sulla percezione di “competenza” e “professionalità” che ci potranno essere attribuite. L’autorevolezza della nostra figura si trasporrà sul testo stesso, rendendolo a sua volta autorevole, persuasivo e coinvolgente.
Non importa quanto l’argomento sia intrinsecamente interessante, importa quanto siamo in grado di far entrare il pubblico all’interno del nostro personale rapporto con l’argomento stesso, gestendo la propria emotività in modo da poterla usare per emozionarlo. La dimensione edonistica, ovvero l’aspetto del piacere, insita nell’udire una voce narrante e nell’osservare un narratore in scena, è parte integrante dell’evento espositivo e dobbiamo esserne consapevoli: ciò che esponiamo deve piacere alla nostra audience e piacerà tanto più quanto più faremo sentire che piace a noi.
In conclusione: attrarre l’attenzione delle persone è alla portata di tutti? La risposta è sì. Esistono tecniche e metodi per affinare la propria comunicazione corporea e vocale, per migliorare le personali abilità di gestione delle emozioni e di relazione col pubblico. Ma il punto focale per diventare più attrattivi non è questo: il punto focale è la disponibilità ad offrire al pubblico un po’ di se stessi, al fine di dare realmente corpo ad una propria presenza scenica genuina e credibile.

Daniele Baron Toaldo

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Tazze da tè e coppie in crisi

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Avevo un vecchio servizio di tazze da tè: di ceramica bianca con dei decori astratti; sei tazze, sei piattini e relativi cucchiaini coordinati. Lo acquistai in un mercatino di modernariato, mi sembrava elegante e lo usai molto durante l’università; poi mi accompagnò attraverso alcuni traslochi, vivendo periodi alternati di utilizzo e di riposo in scatole nascoste in fondo alla credenza. Un giorno – dopo averlo rispolverato per l’ennesima volta – ruppi il manico di una tazza posandola nel lavello. Lì per lì ammetto che un’imprecazione mi uscì di bocca, ma subito raccolsi la tazzina, infilai il manico al suo interno e la riposi di fianco al lavello, dove spesso appoggio le cose di vetro prima di portarle fuori nel bidone apposito (si, lo so, la ceramica non va col vetro). Qualche giorno dopo ne scheggiai un’altra colpendola con una padella che stavo infilando in lavastoviglie: “…e due” pensai, ma non ne feci un dramma. Poi per qualche settimana basta, fino a quando non ruppi un piattino facendolo scivolare da un vassoio su cui l’avevo appoggiato in equilibrio instabile. Qualcuno mi disse sorridendo: “Ma allora lo fai apposta!”… sollevai le spalle e sorrisi pure io. Ora, non voglio dire che danneggiai il servizio di proposito, sarebbe troppo [“psicanalitico” potrei aggiungere]: ci ero affezionato, tutto sommato mi piaceva ancora, tutto sommato. Ma di fatto, tutto sommato, presi un servizio nuovo. A posteriori pensai che forse non ci fossi più così affezionato e lo conservassi solo perché era stato trai miei oggetti per molto tempo: per questo lo trattai con meno cura, creando involontariamente o meno (questo non lo sapremo mai) le condizioni per sostituirlo.

Ma perché richiamare questa storia di normalità quotidiana? Perché, tempo fa, mi è capitato di utilizzarla come metafora per cercare di illustrare ad una persona la mia visione riguardo il suo atteggiamento verso il partner, che si traduceva in comportamenti quali: distrazioni ripetute, come il dimenticarsi di impegni familiari, promesse o anniversari; la predisposizione di situazioni apparentemente innocue ma turbative della serenità familiare, come il riempirsi d’impegni “giustificati” che la portavano spesso fuori da sola il fine settimana;  reazioni distaccate di fronte a rimostranze da parte del partner o dei figli, dovute ad esempio a ritardi all’ora di cena o a silenzi prolungati.

Ricordo che, dopo aver raccontato la storia, dissi più o meno queste parole: “A volte capita che non ci si renda conto precisamente dei sentimenti che nutriamo verso le persone, le situazioni o le cose; magari percepiamo che qualcosa non va, e ci comportiamo sottovalutando la potenziale dannosità dei nostri comportamenti: ad esempio creando le condizioni che possano dare a me o all’altro il pretesto per un litigio, per una rottura, o addirittura per una separazione”. Il comportamento di questa persona, infatti, era apparentemente orientato a fare in modo che si generasse l’idea che, ormai, non ci fosse più nulla da fare per la coppia e che il loro “rapporto – servizio da tè” fosse da buttare. Lo faceva consapevolmente? Ovvero come scelta deliberata? Forse; in parte; spesso no; difficile e a volte azzardato a dirsi. Noi valutiamo gli effetti che i comportamenti producono, cercando di modificarne gli automatismi dannosi. Certamente: “…anche se la possiamo trattare come tale, una relazione non è un servizio da tè… a me sembra”, aggiunsi.

Poche parole e la forza di una metafora, il cui effetto fu quello di far cambiare l’espressione del volto di questa persona, facendola passare da una vivida tensione rabbiosa ad una distensione assorta, quasi malinconica. Rimase in silenzio per qualche minuto, poi disse: “Forse è il caso che lasci andare certi giochetti e cominci a parlare apertamente con mia moglie”.
Già, non era il caso di perdersi in una tazza di tè.

Daniele Baron Toaldo

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La ragione che non convince

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Colgo ancora spunto dalla politica, per parlare di psicologia, comunicazione e non solo. Lo faccio prendendo come riferimento uno spot elettorale appena pubblicato dal Partito Democratico.

Prima di andare oltre nella lettura vi invito a guardarlo (lo trovate qui sopra) e poi vi aspetto per parlarne. Buona visione

Visto? Bene, iniziamo dunque con un’analisi che origina da un quesito: a chi si rivolge il PD in questo spot?

Alla famiglia italiana medio reddito dedita al lavoro, questo è evidente:

  • madre con reddito inferiore ai 24.600 €, altrimenti gli 80€ non li piglierebbe;
  • automobile non lussuosa ma dignitosa;
  • abbigliamento ordinato e cura dell’aspetto (la madre nello spot addirittura si trucca);
  • padre con le maniche rimboccate.

Alla famiglia di cultura medio alta e attenta a valori progressisti:

  • tutti pronti (fuorché il padre) a snocciolare informazioni;
  • figlia presumibilmente laureata e certamente precaria (spesso i co.co.pro sono stati usati per incarichi a neo laureati);
  • figlio un po’ nerd, diciamolo, molto smart e molto tech, attento ai numeri più degli altri;
  • madre e padre storicamente attenti ai diritti civili (fin da quando erano fidanzati, forse negli anni ottanta a giudicare le età);
  • in famiglia c’è una zia omosessuale (è vero questa è una mia ipotesi, ma perché altrimenti sottolineare il fatto della commozione del padre? Io immagino, e non penso solo io, perché si voglia sottolineare la conquista sociale, e quindi la lotta e la sofferenza per ottenere quel risultato).

Ma chi, tra tutti, deve essere persuaso? Quale tipo di elettore? Il padre.
Nello stereotipo, lo si potrebbe vedere come il capofamiglia che guida, maschio, poco informato e in cerca di cose concrete, poco smart e ancora meno tech, che ha lasciato ormai andare le passioni che lo hanno scaldato da giovane. Ma chi sia  di preciso quest’individuo da convincere non si sa bene: si tratta di un abbozzo che a mio avviso denota poca chiarezza di idee.
In ogni caso è un ex: ex elettore, ex persuaso, ex militante forse. Non è certamente uno nuovo, anzi. Si cerca, quindi, di riconquistare i vecchi voti persi, non di allargare il bacino. Questa è un’implicita ammissione di crisi. Non bastavano, infatti, i sondaggi e le diaspore ad evidenziare il calo di consensi, doveva essere lo stesso PD a certificarlo da sé, rivolgendosi esplicitamente all’elettorato disilluso, molto disilluso (“Comunque stavolta il PD non lo voto“).
E per convincere un cuore disilluso che si fa? Certamente non si fa l’elenco ragionato di tutte le cose che abbiamo fatto da quando stiamo assieme!

Ma questo è l’errore tipico dei progressisti, già evidenziato da Lakoff, i quali seguono il riflesso illuministico per cui si ritiene che basti fornire informazioni razionali (fatti e cifre) affinché le persone possano scegliere il candidato migliore. Se, a fronte di ciò, la persona non fa la scelta giusta, allora è un povero qualcosa (aggiungete voi l’epiteto che gradite).

Quest’idea, però, contrasta con quanto in più occasioni è stato evidenziato in psicologia, ovvero che nella presa di decisioni la pesatura razionale di fatti e opinioni incida in misura assai minore rispetto all’impatto emozionale che le comunicazioni possono avere sull’individuo, spesso a livello subcosciente. Ogni processo decisionale, infatti, incorpora modalità di pensiero non lineare, spesso basato su procedimenti euristici di selezione delle informazioni che poco hanno a che vedere con la cosiddetta razionalità (a tal proposito sono stati illuminanti gli studi di Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’economia nel 2002). Risulta, piuttosto, assai più efficace evocare dei concetti, dei quadri di riferimento (cosiddetti frame) che abbiano un impatto sull’immaginario delle persone e sulla loro dimensione affettiva ed emozionale (consiglio qui la lettura di “Non pensare all’elefante” di George Lakoff, tra i più noti linguisti viventi e tra i fondatori della linguistica cognitiva), oppure suggerire delle direzioni d’azione senza prescrivere perentoriamente un comportamento (qui invece consiglio “Nudge. La spinta gentile” di Richard H. Thaler, basato su ricerche in psicologia ed economia comportamentale che sono valse all’autore il Nobel per l’economia 2017).

Comunque, a dimostrare ingenuamente e inconsapevolmente quanto affermato riguardo l’inefficacia di certe strategie, ci pensano gli stessi autori dello spot che alla fine fanno dire ad un padre stizzito: “Basta, comunque il PD non lo voto!”.

E allora che si fa? Qui la ciliegina sulla torta è un bell’appello alla coscienza del padre condito con una fallacia ad autoritatem* in cui Renzi in persona dice: “Pensaci, dai!”. L’effetto però è misero e fa credere che sotto sotto il pensiero sia: “Non ci spero molto, ma mi affido alla tua responsabilità. Vedi tu…”. Ma dopo il dolce vogliamo farci mancare il digestivo? No. Infatti, per mandar giù tutto, il video si chiude con una non molto velata supplica: “Non fermiamoci proprio adesso!”.

A tutti può capitare di essere in crisi, si tratti di un partito, di un’azienda o di una famiglia, ma è proprio in quei momenti che sarebbe bene evitare di tirarsi pure la zappa sui piedi, comunicando in modo sbagliato con le persone che ci stanno a cuore.

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Metafore e comunicazione politica

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Una riflessione sul tweet di Renzi con le nonne

28.01.18 “Il primo confronto della campagna elettorale l’ho fatto con le mie spin-doctor, le mie nonne. Come mi hanno insegnato loro: # passodopopasso e concretezza. Avanti”

Bene, il messaggio verbale di facciata restituisce un’idea di saggezza, prudenza e di apertura all’ascolto. Il tweet, inoltre, è accompagnato da un’immagine apparentemente innocua, descrittiva, coerente col messaggio di facciata.

Ma proviamo ad analizzarla meglio:

⁃ aspetto cromatico: Renzi è in bianco, le nonne sono in rosso e in nero. Dal suo punto di vista, la nonna nera sta a destra e la rossa a sinistra, lui nel mezzo. Il rimando a schemi politici consolidati è chiaro. Interessante che lui si identifichi con il colore della famosa balena. Sarà che spesso indossa camicie bianche, ma in questo caso è alquanto simbolico.

⁃ il nero sta spiegando (si suppone in alternanza all’altra “spin-doctor” rossa) e il bianco ascolta con un sorriso: beffardo? con aria di sufficienza? Fate voi delle ipotesi. Come chi guarda l’anziano rimbambito?

⁃ giovinezza vs vecchiaia: il rosso e il nero, sono le nonne anziane, mentre lui è il giovane nel centro, il nuovo che avanza e si fa largo.

⁃ il bianco giovane è a capotavola: le anziane danno consigli ma il capofamiglia ora è lui e dopo aver ascoltato prenderà le decisioni secondo il suo modo di valutare le cose.
La metafora della famiglia è spesso presente in politica e nella quotidianità (es. “questa azienda è come una famiglia”) e, come direbbe George Lakoff, ogni famiglia segue un modello educativo. Che tipo di genitore è il bianco della foto? Autoritario, severo, accudente, premuroso? Un’idea personale ce l’ho ma riflette la mia opinione su Renzi e qui non serve esprimerla.

I messaggi nella vita di ciascuno di noi, non solo in politica, sono sempre accompagnati da dimensioni di significato non visibili in superficie, ma fondamentali per stabilire un fondo comunicativo e di comprensione reciproca. Non sono però invisibili, tutt’altro, e quando riusciamo a vederli comprendiamo meglio ciò che sta succedendo e possiamo agire più consapevolmente.

Daniele Baron Toaldo

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Il fantoccio

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Quando il pensiero è fallace

Spesso capita, troppo spesso, che nelle conversazioni le persone cerchino di sostenere ad ogni costo una posizione, non curandosi troppo della forma e del contenuto di ciò che stanno dicendo. A volte capita, più di quanto si possa immaginare, che abili comunicatori utilizzino di proposito certe forme linguistiche, che sono espressione di modi di pensare non proprio corretti, ma che se utilizzate strategicamente possono mettere in difficoltà l’interlocutore.

Mi riferisco alle fallacie logiche, ovvero a tutti quei modi di ragionare errati (se ne possono annoverare almeno una trentina), non validi da un punto di vista logico: modi di ragionare che conducono a conclusioni scorrette o fuorvianti a partire da premesse pur valide o a loro volta viziate.

Spesso capita, troppo spesso, che ad offrirci l’opportunità di parlare di queste modalità di pensiero che si ripercuotono nel linguaggio, siano i personaggi pubblici. Nello specifico oggi ci viene in aiuto il presidente Trump (non nuovo peraltro all’uso di fallacie logiche), attraverso un’esternazione riguardante lo shutdown, ovvero una particolare procedura politica americana.

Riprendendo uno stralcio da La Repubblica:

“Il presidente Donald Trump archivia il suo primo anno alla presidenza con lo “shutdown”, ovvero il blocco dell’attività amministrativa federale, a partire dai servizi meno essenziali, per mancanza di fondi. Il Senato non ha approvato la legge di rifinanziamento a breve, per 4 settimane, che era stata licenziata dalla Camera dei Rappresentanti. Per approvare la misura i democratici avevano chiesto la conferma delle tutele per i dreamers, i giovani immigrati portati negli Usa da piccoli da genitori clandestini che l’amministrazione di Barack Obama ha messo al riparo dalle deportazioni. “

Trump, scagliandosi contro i democratici, ha detto a riguardo:

Sono più preoccupati degli immigrati illegali piuttosto che delle nostre valorose forze armate e della sicurezza ai nostri confini meridionali. Avrebbero potuto trovare facilmente un accordo ma hanno preferito la politica dello shutdown”.

Ed ecco qua la nostra fallacia sottolineata ed evidenziata in grassetto. Nello specifico va sotto il nome di “Argomento fantoccio”: ovvero lo stratagemma attraverso cui viene rappresentata scorrettamente la tesi o l’opinione dell’altro ponendo in contrapposizione il contenuto del suo discorso con un altro argomento privo di pertinenza contestuale, ma utile a sviare la discussione. In questo caso il tema era la conferma di certe tutele per prevenire la deportazione di alcune categorie di minori, ma nelle sue esternazioni pubbliche Trump non ha risposto nel merito, bensì ha posto il problema delle valorose forze armate e della sicurezza dei confini. Il tema posto da Trump è rilevante, ma non pertinente, e conduce l’interlocutore a doversi difendere da quella che viene vissuta come una storpiatura del tema principale e da una accusa in un campo (quello militare) che non era in discussione. Questo garantisce un vantaggio a chi usa la fallacia, perché l’interlocutore si trova spiazzato e sulla difensiva, per cui facilmente attaccabile. Attraverso l’uso di uno stratagemma simile, inoltre, è facile condizionare l’opinione di un terzo osservatore (ad es. il pubblico davanti a uno schermo), generando in esso un’idea di debolezza di chi si trova spiazzato e di una immagine di forza e autorevolezza di che mette in difficoltà l’avversario.

Un esempio quotidiano di uso di tale fallacia nel rapporto di coppia potrebbe essere questo:

A: “Credo che noi due non ci ascoltiamo molto.”
B: “Mi dispiace che pensi che non siamo fatti l’uno per l’altra/o!”

Anche qui, come è evidente, “B” non risponde nel merito, ma pone un’altra questione generale (opinabile o meno non ha importanza) che induce “A” a spostarsi su di un altro campo di discussione. “A” potrebbe sentirsi preso in contropiede e sentire dentro di sé un moto di irritazione (“ma che cosa c’entra questo adesso?!? Io volevo parlare di un’altra cosa!”), che potrebbe condurlo ad una reazione anche rabbiosa. Se ciò avviene, state pur certi che “B” ha ottenuto ciò che voleva: non ha risposto e ha destabilizzato l’altro, fino al punto di potergli rinfacciare “Ma ti pare il modo di reagire!”.

È la stessa cosa che succede di frequente ai democratici americani di fronte a molte esternazioni del loro presidente.

Quindi, la prossima volta che in una discussione sentite dentro di voi sorgere un fastidio accompagnato dalla domanda “ma che c’entra?!?”, è assai probabile che vi abbiano appena rifilato un argomento fantoccio!

Daniele Baron Toaldo

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Il potere della parola e del dialogo

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“La parola sta all’anima come la medicina al corpo”
Gorgia (485 a.c. – 375 a.c.)

Viviamo in un’epoca in cui i prodotti della tecnica e le compulsioni consumistiche pervadono e frequentemente sovrastano l’uomo, offrendo spesso l’illusione della felicità e del benessere: si pensi ad esempio alla ricerca ossessiva della bellezza attraverso le mutazioni del corpo, all’“acquisto” di affetto familiare attraverso i doni materiali, alla delega della propria salute ad agenti esterni, quali pillole miracolose o rimedi di dubbia validità. In questo contesto, la parola, il dialogo e il loro potere suggestivo, terapeutico e risolutivo di problemi, si tramutano in un bene pregiato, da riscoprire.

Prima di proseguire nella lettura provate a chiedervi: “Quali sono le cose che hanno influito maggiormente nella mia vita recente?”

Generalmente di fronte a una simile domanda rispondiamo facendo riferimento a degli eventi o a delle persone, mentre molto meno si citano i dialoghi scambiati con esse o le riflessioni suscitate in noi dagli eventi stessi a cui abbiamo assistito o di cui siamo stati protagonisti. Appare scontato, infatti, che ci siano state delle parole di mezzo a questi scorci di vita, ma come tutte le cose eccessivamente scontate, rischiamo di non attribuire loro il giusto valore.

Non c’è esperienza consapevole che viviamo, infatti, che non venga tradotta in noi anche attraverso una simbolizzazione linguistica, e non c’è rielaborazione e trasmissione ad altri di questa esperienza che non sia condizionata dalla lingua e dal sistema concettuale che abbiamo acquisito fin da piccoli. Ciò che ci è stato insegnato, ci è stato impartito principalmente attraverso il linguaggio, e le azioni altrui da cui abbiamo tratto ispirazione si sono tradotte in noi in modo simbolico attraverso il linguaggio stesso.

Noi siamo pervasi di parole. Anche quando non stiamo parlando con qualcuno usiamo la parola nei nostri soliloqui mentali, che ci accompagnano nelle attività quotidiane (mentre guidiamo, cuciniamo o lavoriamo), tanto che si può sostenere che linguaggio e pensiero siano inscindibili e che l’acquisizione dell’uno condizioni lo sviluppo dell’altro e viceversa.

Negli studi sul linguaggio condotti dall’antropologo Edward Sapir e dal suo collega e allievo Benjamin Whorf, venne avanza proprio l’ipotesi che il modo di pensare delle persone dipendesse fortemente dalla lingua parlata e che l’acquisizione di essa determinasse le peculiarità di ragionamento dei parlanti, strutturando la loro capacità di astrazione, di categorizzazione e comprensione della realtà.

Parafrasando quanto sostiene il linguista Noam Chomsky, una delle menti più influenti della contemporaneità, il linguaggio è un sistema finito, che si riduce ad un numero limitato di parole e di regole, ma dotato di un potere infinito. Le parole influenzano il pensiero,  modificando i comportamenti delle persone: le parole giuste possono suscitare sentimenti e farci innamorare, possono muovere le folle o stimolare un progresso scientifico, senza necessità di altri strumenti che non sia l’impalpabile potere persuasivo che si nasconde nella loro composizione. Infatti, al pari di un composto chimico che agisce su elementi organici o inanimati, esse sono in grado di “sciogliere” elementi immateriali, come certi pensieri rigidi che a volte contraddistinguono l’essere umano, o al contrario “renderne solidi” altri, come un collante che cementa le relazioni tra le persone amate.

Mentre pensiamo attraverso l’uso del linguaggio o esterniamo a parole il pensiero, esso prende forma; metaforicamente si potrebbe dire che si materializza, come si può materializzare un prezioso cristallo. Come un cristallo esso può aumentare in spessore e complessità, fino al punto di diventare un elemento importante, forte e granitico, della nostra vita. Ad esempio possiamo produrre pensieri ontologici (legati all’identità della persona), quindi su come e chi siamo (il nostro carattere, le nostre qualità e i nostri difetti); pensieri etici, che definiscono un insieme di norme da seguire nella vita; pensieri sociali, che stabiliscono i termini personali della vita comunitaria o familiare. Le parole, così, danno forma alle opinioni e guidano in modo concreto il nostro comportamento presente e futuro, condizionando anche la nostra salute psicologica e relazionale, oltreché fisica attraverso varie manifestazioni di tipo psicosomatico.

Ogni scelta lavorativa, ogni dubbio su di sé, ogni difficoltà relazionale sono agganciati alle parole che abbiamo usato e usiamo per definirli. La consapevolezza di tutto ciò, quindi, offre una grande opportunità: ovvero che ogni scelta, dubbio o difficoltà, possono essere risolti anche attraverso l’uso della parola. Al pari di un farmaco che, come la giusta chiave in una serratura, si aggancia ad uno specifico recettore cellulare producendo effetti benefici nel nostro organismo, una parola, o un insieme di parole strutturate in modo adeguato, possono modificarci profondamente: si possono “agganciare” al nostro sistema di pensieri cristallizzati, rigidi o ripetitivi, generando delle aperture nelle nostre visioni e delle modificazioni nel nostro modo di intendere le cose (il sistema simbolico individuale), cambiando il nostro o l’altrui pensiero e il conseguente modo di comportarsi o di vivere un’esperienza, con effetti benefici nella nostra salute personale e relazionale. Quindi, similmente al medico o al farmacista che si servono dei farmaci, lo psicologo (e lo psicoterapeuta nello specifico) usa la parola e il dialogo come strumento elettivo della sua azione terapeutica, misurandone le dosi e la composizione, stimolandone la produzione  negli interlocutori attraverso domande strategiche e osservazioni mirate, come un esperto funambolo che si muove sulla corda del linguaggio e della relazione, rimanendo in equilibrio per raggiungere l’obiettivo della salute della persona.

Ciò che ciascuno può fare nella propria quotidianità è cercare di migliorare sempre più nell’utilizzo di questo strumento dal potere immenso, capace di modificare la storia dell’uomo o, più modestamente, la personale esperienza. Sapendo, inoltre, che la parola include numerosi vantaggi aggiunti: è nostra, è interna a noi, siamo noi a generarla, a manipolarla e a poterla utilizzare per il raggiungimento della felicità e del benessere. Insomma, è gratis, comoda ed efficace: basta volerla usare nel modo migliore.

Daniele Baron Toaldo
Sara Danesi

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Il corpo allo specchio

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Diete disfunzionali e tecnologie del sé

Viviamo in un’epoca in cui i prodotti della tecnica e le compulsioni consumistiche pervadono e frequentemente sovrastano l’uomo, offrendo spesso l’illusione della felicità e del benessere: si pensi ad esempio alla ricerca ossessiva della bellezza attraverso le mutazioni del corpo, all’“acquisto” di affetto familiare attraverso i doni materiali, alla delega della propria salute ad agenti esterni, quali pillole miracolose o rimedi di dubbia validità. In questo contesto, la parola, il dialogo e il loro potere suggestivo, terapeutico e risolutivo di problemi, si tramutano in un bene pregiato, da riscoprire.

Prima di proseguire nella lettura provate a chiedervi: quali sono le cose che hanno influito maggiormente nella mia vita recente?

Generalmente di fronte a una simile domanda rispondiamo facendo riferimento a degli eventi o a delle persone, mentre molto meno si citano i dialoghi scambiati con esse o le riflessioni suscitate in noi dagli eventi stessi a cui abbiamo assistito o di cui siamo stati protagonisti. Appare scontato, infatti, che ci siano state delle parole di mezzo a questi scorci di vita, ma come tutte le cose eccessivamente scontate, rischiamo di non attribuire loro il giusto valore.

Non c’è esperienza consapevole che viviamo, infatti, che non venga tradotta in noi anche attraverso una simbolizzazione linguistica, e non c’è rielaborazione e trasmissione ad altri di questa esperienza che non sia condizionata dalla lingua e dal sistema concettuale che abbiamo acquisito fin da piccoli. Ciò che ci è stato insegnato, ci è stato impartito principalmente attraverso il linguaggio, e le azioni altrui da cui abbiamo tratto ispirazione si sono tradotte in noi in modo simbolico attraverso il linguaggio stesso.

Noi siamo pervasi di parole. Anche quando non stiamo parlando con qualcuno usiamo la parola nei nostri soliloqui mentali, che ci accompagnano nelle attività quotidiane (mentre guidiamo, cuciniamo o lavoriamo), tanto che si può sostenere che linguaggio e pensiero siano inscindibili e che l’acquisizione dell’uno condizioni lo sviluppo dell’altro e viceversa.

Negli studi sul linguaggio condotti dall’antropologo Edward Sapir e dal suo collega e allievo Benjamin Whorf, venne avanza proprio l’ipotesi che il modo di pensare delle persone dipendesse fortemente dalla lingua parlata e che l’acquisizione di essa determinasse le peculiarità di ragionamento dei parlanti, strutturando la loro capacità di astrazione, di categorizzazione e comprensione della realtà.

Parafrasando quanto sostiene il linguista Noam Chomsky, una delle menti più influenti della contemporaneità, il linguaggio è un sistema finito, che si riduce ad un numero limitato di parole e di regole, ma dotato di un potere infinito. Le parole influenzano il pensiero,  modificando i comportamenti delle persone: le parole giuste possono suscitare sentimenti e farci innamorare, possono muovere le folle o stimolare un progresso scientifico, senza necessità di altri strumenti che non sia l’impalpabile potere persuasivo che si nasconde nella loro composizione. Infatti, al pari di un composto chimico che agisce su elementi organici o inanimati, esse sono in grado di “sciogliere” elementi immateriali, come certi pensieri rigidi che a volte contraddistinguono l’essere umano, o al contrario “renderne solidi” altri, come un collante che cementa le relazioni tra le persone amate.

Mentre pensiamo attraverso l’uso del linguaggio o esterniamo a parole il pensiero, esso prende forma, metaforicamente si potrebbe dire che si materializza, come si può materializzare un prezioso cristallo. Come un cristallo esso può aumentare in spessore e complessità, fino al punto di diventare un elemento importante, forte e granitico, della nostra vita. Ad esempio possiamo produrre pensieri ontologici, su come siamo (il nostro carattere, le nostre qualità e i nostri difetti); pensieri etici, che definiscono un insieme di norme da seguire nella vita; pensieri sociali, che stabiliscono i termini personali della vita comunitaria o familiare. Le parole, così, danno forma alle opinioni e guidano in modo concreto il nostro comportamento presente e futuro, condizionando anche la nostra salute psicologica e relazionale, oltreché fisica attraverso varie manifestazioni di tipo psicosomatico.

Ogni scelta lavorativa, ogni dubbio su di sé, ogni difficoltà relazionale sono agganciati alle parole che abbiamo usato e usiamo per definirli. La consapevolezza di tutto ciò, quindi, offre una grande opportunità: ovvero che ogni scelta, dubbio o difficoltà, possono essere risolti anche attraverso l’uso della parola. Al pari di un farmaco che, come la giusta chiave in una serratura, si aggancia ad uno specifico recettore cellulare producendo effetti benefici nel nostro organismo, una parola, o un insieme di parole strutturate in modo adeguato, si possono “agganciare” al nostro sistema di pensieri cristallizzati, rigidi o ripetitivi, generando delle aperture e delle modificazioni nel sistema simbolico individuale, cambiando il nostro o l’altrui pensiero e il conseguente modo di comportarsi o di vivere un’esperienza, con effetti benefici nella nostra salute personale e relazionale. Quindi, similmente al medico o al farmacista che si servono dei farmaci, lo psicologo (e lo psicoterapeuta nello specifico) usa la parola e il dialogo come strumento elettivo della sua azione terapeutica, misurandone le dosi e la composizione, stimolandone la produzione  negli interlocutori attraverso domande strategiche e osservazioni mirate, come un esperto funambolo che si muove sulla corda del linguaggio e della relazione, rimanendo in equilibrio per raggiungere l’obiettivo della salute della persona.

Ciò che ciascuno può fare nella propria quotidianità è cercare di migliorare sempre più nell’utilizzo di questo strumento dal potere immenso, capace di modificare la storia dell’uomo o, più modestamente, la personale esperienza, il modo di essere, di percepirsi e di relazionarsi con chi ci circonda. Sapendo, inoltre, che la parola include numerosi vantaggi aggiunti: è nostra, è interna a noi, siamo noi a generarla, a manipolarla e a poterla utilizzare per il raggiungimento della felicità e del benessere.

Daniele Baron Toaldo
Sara Danesi

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Paure quotidiane e paure patologiche

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Quante sono le paure? Paura degli spazi chiusi (come l’ascensore), paura di volare, paura degli insetti, paura della folla, paura dell’acqua, paura dei temporali, paura dell’altezza, paura della velocità, paura del buio, paura del sangue… Potremmo proseguire nell’elenco fino al termine dell’articolo ed oltre, ma il concetto è chiaro: l’area della paura è estremamente estesa e non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia definito la paura patologica come il disturbo più importante tra le patologie dell’uomo, poiché colpisce più del 20% delle persone.

Le fobie, quindi, sono assai comuni tanto quanto, si potrebbe dire, è esteso il pensiero umano. Non ci sono limiti alla paura, poiché la nostra mente è in grado di associare risposte fisiche ed emozionali automatiche a qualsiasi cosa (reale o astratta) che venga percepita, anche in modo apparentemente irrazionale, come pericolosa per la propria integrità o incolumità. Il più delle volte, l’esposizione allo stimolo fobico provoca una risposta ansiosa immediata, che può prendere forma in un attacco di panico situazionale, e ci si può trovare investiti dall’emozione negativa e bloccati nel corpo senza nemmeno comprendere l’origine delle nostre reazioni, che vengono giudicate, soprattutto da un occhio esterno, come spropositate e irrazionali. Tale paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, può essere provocata anche dall’attesa di un oggetto o di situazioni specifiche, portando la persona a vivere uno stato di ansia anticipatoria che interferisce con il normale funzionamento quotidiano, al lavoro, a scuola o in qualsiasi altra situazione di vita.

Le fobie, da un punto di vista clinico, appartengono alla grande famiglia dei disturbi d’ansia, che comprende, per citarne alcuni: il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo di panico, le fobie specifiche, le fobie sociali, l’agorafobia, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo post-traumatico da stress. Ciascuno di questi disturbi porta a reazioni fisiche  e comportamentali simili: respirazione accelerata o iperventilazione, aumento della frequenza cardiaca, sudorazione, tensione muscolare o articolazioni bloccate, occhi spalancati o evitamento del contatto visivo, irritabilità o distraibilità, logorrea o distacco e isolamento. Tutti sintomi che si accompagnano ad un’ampia gamma di emozioni negative che vanno da uno stato di disagio lieve fino alla paura marcata o terrore, con sensazioni di poter morire da un momento all’altro.

Si possono evidenziare, quindi, vari livelli di disturbo fobico, che, come detto, partono dalle comuni paure quotidiane fino a quadri clinici molto seri. In linea di massima, tra le persone che vivono le proprie paure come un disagio non tollerabile, si possono distinguere due grandi categorie:

  • nel primo gruppo troviamo le persone le cui fobie non interferiscono ancora in modo significativo con le normali attività quotidiane (lavorative, genitoriali, ecc.), riuscendo a svolgere completamente i loro compiti, anche se con maggiore difficoltà e ridotta produttività (ad esempio guidano l’auto se accompagnati o solo nelle strade conosciute). In questi casi, le paure immobilizzanti e gli attacchi d’ansia sono frequenti e spesso non preceduti da stimoli che possano lasciar presagire l’insorgenza della crisi fobica. In tale categoria rientrano la maggior parte dei fobici;
  • il secondo gruppo, invece, raccoglie le manifestazioni più severe, nelle quali le persone non sono più in grado di svolgere una parte o tutte le proprie mansioni quotidiane (ad esempio non guidano più l’auto). Esse sono bloccate da una paura generalizzata, che si è allargata progressivamente nel tempo come una macchia oleosa che ha intaccato numerose aree di funzionamento personale, portando all’abbandono di qualunque attività o responsabilità e intaccando le relazioni intime e familiari. Queste persone spesso vivono limitando la propria autonomia e i propri spazi di vita, in uno stato frequente di timore privo di oggetto che può essere definito “paura della paura”.

Nella gestione della propria fobia le persone mettono in atto una serie di comportamenti difensivi per fronteggiare la propria situazione, quali il controllo volontario delle proprie sensazioni di paura e delle reazioni psico-fisiologiche di ansia, l’evitamento delle situazioni temute e la richiesta di rassicurazione e aiuto. Comportamenti, questi, che invariabilmente diventano essi stessi parte integrante del problema perché rafforzano il senso di insicurezza rispetto alle proprie risorse e incrementano la percezione della minaccia. In un progressivo percorso di riduzione attiva dei personali spazi di azione e di vita, causato dall’evitamento di un numero crescente di situazioni fobiche simili tra loro, la persona può ritrovarsi imprigionata in un mondo ristretto, in uno stato di dipendenza quasi totale dalle persone vicine. Nonostante il quadro patologico possa essere a volte molto serio, è possibile comunque superare una fobia agendo terapeuticamente su tali comportamenti. Una persona che soffre di paura patologica, però, difficilmente può da sola superare il problema, poiché è necessario intervenire sul piano emozionale e subcosciente e non attraverso vie di spiegazione razionale. Anche i familiari, che spesso compensano le difficoltà di vita del fobico, ad esempio accompagnandolo in macchina, purtroppo, non fanno altro che mantenere il disturbo divenendo essi stessi co-sostenitori del problema. L’invito per tutti, vista la natura del problema, è di rivolgersi ad uno specialista e, per chi è vicino, di cercare di attenuare i gesti di aiuto costante, al fine di stimolare le risorse individuali e l’autonomia: “Insegna a pescare invece di regalare il pesce”.

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