Le parole emotive

“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”

L. Wittgenstein

Traggo spunto per questo post da un’interessante ricerca che racconta le #EmozioniPolitiche dei leader di partito in queste elezioni 2018, nata dalla collaborazione tra numerosi istituti italiani*. La ricerca si pone come intento quello di studiare, attraverso l’analisi dei post social, come il modo di comunicare di ciascun politico possa generare negli elettori stati d’animo differenti, a seconda delle parole utilizzate, delle locuzioni scelte e del modo di comporre le frasi.

Per quanto sia sempre difficoltoso e rischioso operare un’associazione diretta tra specifiche emozioni e fenomeni umani osservabili (atteggiamenti, azioni, parole) poiché non ci è possibile toccare e vedere un’emozione e dobbiamo sempre ipotizzarla, codificarla e desumerla utilizzando una teoria delle emozioni (personale o scientifica che sia), l’intento della ricerca è ambizioso, sia per metodo che per mole apparente di dati analizzata, e i risultati interessanti (approfondisci su La Repubblica). Si evince, infatti, come ogni  persona attraverso le sue comunicazioni possa produrre, in modo più o meno consapevole, non solo un passaggio di informazioni, ma anche e soprattutto un effetto emotivo sull’interlocutore, influenzandone in modo significativo le decisioni.

L’attenzione per il linguaggio e per il modo in cui le persone lo utilizzano, si è sviluppata maggiormente nel ‘900, grazie a numerosi studiosi in vari ambiti di pensiero: Wittgenstein in filosofia, Sapir e Whorf in antropologia, Saussure,  Chomsky ed Eco in linguistica, Pirandello in letteratura (a tal proposito, se gradite, potete leggere uno stralcio illuminante di “Uno nessuno e centomila” che riportiamo a questo link), M. Erickson e Watzlawick in psicologia (filone teorico che ha influenzato la formazione mia e della dott.ssa Danesi), hanno messo in luce come il linguaggio condizioni il modo in cui noi concepiamo e interagiamo con il mondo. “Le parole sono importanti!”: così Nanni Moretti inveiva contro una giornalista che si definiva “alle prime armi”, in una famosa scena di Palombella Rossa. Infatti, escludendo il caso specifico di studio della comunicazione non verbale, possiamo affermare che tutto ciò che siamo in grado di produrre utilizzando le lingue che conosciamo, sono l’unico modo che abbiamo per interagire con il prossimo, l’unico modo per poter trasferire il contenuto umano composto di quei fenomeni interiori di cui abbiamo coscienza: pensieri, stati d’animo, sensazioni, emozioni… la lista è lunga e ci limitiamo a questi termini.

Quindi, se vogliamo far comprendere ad un nostro amico l’emozione che stiamo provando, cercheremo di tradurre attraverso l’uso del linguaggio il panorama complesso e indefinito di ciò che è dentro di noi in un determinato momento. Maggiore sarà la resa di tale traduzione quanto maggiori saranno la nostra padronanza della lingua e la nostra abilità retorica.

Ogni cosa che diciamo fa riferimento a noi stessi, ovvero al nostro modo di vivere e interpretare gli accadimenti, e porta con sé qualcosa di noi. Chi ci ascolta, recepisce il contenuto delle parole, ma anche il nostro modo di interpretare le cose del mondo e il rapporto emozionale che abbiamo con tali interpretazioni. Se qualcuno vi scrive una lettera (cosa assai rara ormai, ma che sarebbe bello a volte recuperare) in cui parla del suo lavoro, riuscirete a “leggere tra le righe” il rapporto stesso che lui ha con la sua attività; e questo accade per qualsiasi argomento. In questo modo, influenziamo i nostri interlocutori offrendogli, a volte involontariamente, una chiave di lettura e trasferendo il carico emozionale che ci ha accompagnato durante la stesura del testo. Ciò dipende, ovviamente, da quali parole scegliamo, ma anche da come le componiamo tra loro. Immaginate di voler scrivere una email affettuosa, o un messaggio di rimprovero: l’attenzione che riporrete sulla composizione del testo sarà massima, per poter ottenere il risultato desiderato. Ecco, quando parliamo liberamente spesso ci curiamo di meno di come usiamo le parole, e frequentemente incorriamo in situazioni spiacevoli che noi stesso abbiamo generato.

Per questo, se si vuole diventare abili comunicatori, non solo per finalità professionali (o politiche, nel caso citato), ma anche per migliorare il grado di comprensione reciproca con chi ci è vicino, è bene praticare e approfondire il tema della comunicazione, come si trattasse di uno sport nel quale abbiamo deciso di migliorare le nostre prestazioni.

Come? Innanzitutto leggendo di più di quanto faccia un italiano medio (siamo sempre in coda nelle statistiche europee); poi approfondendo un po’ le teorie e le tecniche di dialogo efficace esistenti; infine, diventando più curiosi di noi stessi, ovvero più interessati al nostro stile comunicativo, cercando di osservarci mentre siamo in azione.

Faticoso? Beh, un po’ si. Ma, rimanendo in metafora sportiva, anche una piccola medaglia, un applauso o un abbraccio di un compagno ripagano ogni fatica.

  • MediaLaB del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, l’Osservatorio sulla Comunicazione Politica e Pubblica del Dipartimento di Studi Politici dell’Università degli Studi di Torino, il CoLing Lab del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa e l’Istituto di Informatica e Telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa.
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