Vita deprivata e Covid

Alla fine ci siamo. 

Anche le persone più resistenti, stanno cominciando a vacillare. Dal mio osservatorio clinico sto cominciando a vedere che anche coloro che hanno numerose risorse interiori, affettive e relazionali stanno accusando il colpo di oltre un anno di deprivazione. 

Avevano tenuto gli argini fino a Natale, ma ora la fatica comincia a essere tanta. Sempre più persone, di differenti estrazioni e fasce d’età, chiedono aiuto per i motivi più disparati, spesso non rendendosi conto che buona parte del loro disagio è riconducibile alla condizione di perdurante deprivazione che stiamo tutti vivendo. 

Una deprivazione che si può declinare in vario modo:

    • deprivazione sensoriale, data dai dispositivi di protezione: mascherine, visiere, tute, guanti;
    • deprivazione emotiva, nello specifico del sentimento della gioia: siamo limitati nel vivere occasioni per accoglierla e generarla attraverso attività ricreative, culturali e sportive;
    • deprivazione affettiva e sociale, inutile fare degli esempi;
    • deprivazione lavorativa e identitaria: non so più chi sono, perché ciò che dava forma prima al mio essere, ora non c’è più;
    • deprivazione motoria e spaziale, in cui la libertà di movimento negata in modo progressivo (fino al punto di ritrovarsi in isolamento forzato in una stanza di casa poiché positivi alla malattia o, ancor peggio, in un reparto di terapia intensiva) può condurre a manifestazioni psicologiche paragonabili a quelle della sindrome del prigioniero;
    • deprivazione del sonno, originata dalle rimuginazioni e dalle ansie del quotidiano, con effetti sull’attenzione diurna e sull’equilibrio emotivo.
    • deprivazione informativa: lo stato di incertezza su ciò che sarà, inibisce i progetti di vita e di lavoro futuri.

L’elenco potrebbe essere ancora lungo e gli studi scientifici che hanno approfondito gli effetti negativi della deprivazione sono numerosissimi. Sappiamo, ad esempio, che la deprivazione affettiva e sociale può incidere sullo sviluppo cognitivo e sulle abilità relazionali in fase evolutiva (bambini e adolescenti); sappiamo che una deprivazione sensoriale, può generare condizioni psicologiche ansiose e ossessive; sappiamo che una deprivazione identitaria e di scopo può condurre a stati depressivi profondi.

A ciò aggiungiamo che abbiamo paura, per noi e per i nostri cari, per la salute e per il sostentamento. La paura e la deprivazione le avvertiamo anche quando non ci stiamo pensando, e c’è sempre la possibilità che qualcosa o qualcuno ci rimandi con la mente e l’animo a quelle condizioni. Ne parliamo spesso, cercando di esorcizzarle, esternando le preoccupazioni e le rabbie, alla ricerca di quell’effimero effetto catartico e taumaturgico che la condivisione delle pene produce. Ma ciò che resta, lo sappiamo, è il senso di frustrazione dovuto al fatto che la maggior parte delle cose che facciamo e desideriamo fare si scontrano con un “però” o un “ma”: “esco, ma… […il Covid…]”, “fai, però… […il Covid]”, “vediamo, ma… […il Covid]”.

Viviamo in uno stato di allerta che si rigenera quotidianamente e che trova nella mascherina un potente attivatore simbolico: infatti, nell’istante in cui la indossiamo è come se pigiassimo un pulsante di avviamento, che dà alimentazione alla catena di associazioni mentali, più o meno consce, che conduce ai nostri sentimenti e ai nostri pensieri legati alla pandemia. C’è, infatti, chi a volte evita di indossarla, non per negare l’esistenza del Covid, bensì per evitare almeno una volta di attivare dentro di sé questo processo. (Però, non vi consiglio di farlo, poiché si tratta di un beneficio illusorio: la catena si attiva comunque, in quanto il tentativo di evitamento di un oggetto porta in ogni caso a pensare all’oggetto evitato. È come se vi chiedessi: non pensare a un elefante!).

Oramai, possiamo affermare, in modo apparentemente paradossale, che non desideriamo la fine della pandemia, desideriamo la fine della deprivazione.

Ma, attenzione! Oltre ai sintomi già elencati, il rischio grande a cui andiamo incontro quando viviamo uno stato di deprivazione, è il senso di impotenza: meglio sarebbe dire, tecnicamente, l’impotenza appresa. Ovvero, quella condizione psicologica di rassegnazione e rinuncia, in cui le frustrazioni ripetute e i tentativi vanificati, mi hanno “insegnato” che non c’è nulla da fare, se non vivere passivamente una realtà disagiante apparentemente non modificabile dalla mia azione.
In parte è vero che, ora come ora, molte cose siano fuori dal nostro controllo diretto, ma il pericolo di maturare dentro di noi la convinzione che la risposta definitiva alla frustrazione e all’incertezza debba necessariamente essere l’immobilità, è concreto.

Anche perché dobbiamo ricordare e sapere che alcune certezze le abbiamo.

La prima è che la pandemia finirà, portandosi via molto, ma finirà. 

La seconda è che gli stati di deprivazione non producono solo disastri: uno stato temporaneo di deprivazione (seppur prolungato), consente di vedere quali siano i limiti della nostra abitudine e il potenziale delle nostre risorse interiori. Ci permette di vedere su cosa ci siamo appoggiati, o addirittura adagiati, in tempi non deprivati: su quali certezze, su quali relazioni, su quali comportamenti abbiamo costruito la nostra vita routinaria. Può apparire strano, ma alcuni fondamenti del nostro esistere possono diventare gradualmente invisibili alla mente e al cuore, come le fondamenta di una casa scompaiono alla vista degli occhi. Fino a quando uno scossone non le riporta in evidenza, facendoci rendere conto di quanto le avessimo date per scontate e costringendoci a riconsiderare delle priorità: cosa è realmente importante per me e per le persone con cui condivido l’esistenza?
Uno stato di deprivazione inatteso ci costringe a rimetterci in gioco, per ricercare nuovi equilibri, obbligandoci ad attingere alle nostre abilità e a ricercare nuove risorse: ci rimette in movimento, facendoci rendere conto di quanto la stabilità includa inevitabilmente anche le zavorre. Potremmo, quindi, anche cercare volontariamente degli stati di deprivazione, per spingerci a migliorare, focalizzandoci sulle cose importanti e ripulendoci dalle incrostazioni delle certezze consolidate. Ricordo un’espressione divertente che girava tra le mie amicizie di un tempo: “una pietra che ruzzola non fa muschio”.

La terza certezza (e direi ultima) è che quando uno stato di deprivazione (volontario o meno) è in essere, dobbiamo sforzarci di usarlo, di spremerne tutto ciò che di positivo porta dentro di sé, anche se alle volte ci sembra poco. Dobbiamo impegnarci molto nel farlo, soprattutto adesso, perché se non lo facciamo sarà lui a spremere noi.

Buone spremute

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