Lo smart working e il lavoro per obiettivi

Mi è capitato frequentemente negli ultimi mesi di sentire associato lo smart working con il concetto di lavoro per obiettivi, come se svincolandosi dall’orario di ufficio le persone cambiassero automaticamente l’approccio alla propria quotidianità professionale.

Prescindendo dall’ovvia considerazione che lavorare da casa non è necessariamente una soluzione smart, perché frequentemente la casa non è strutturata per eseguire efficacemente le proprie mansioni, è vero però che questo offre la possibilità di organizzarsi con maggiore autonomia e potenzialmente di avere un work life balance migliore. Ma il punto fondamentale è che queste opportunità di riorganizzazione offerte dal telelavoro non devono essere confuse col lavorare per obiettivi.

La maggior parte delle persone, infatti, non lavora per obiettivi, ma si limita a svolgere un insieme di compiti assegnati e confondono l’esecuzione dei compiti col raggiungimento di obiettivi; anche chi dà l’incarico ad altri di eseguire dei compiti, generalmente ritiene di aver assegnato degli obiettivi da raggiungere, ma in realtà ha semplicemente chiesto di “fare delle cose”. Questo succede perché il più delle volte non siamo addestrati nell’intendere il nostro operato come orientato ad un fine. La frammentazione dei processi  (produttivi, ad esempio) e l’assegnazione di specifiche competenze spesso allontana le persone della visione d’insieme, non consentendo loro di comprendere il legame dei propri compiti con quelli eseguiti da un altro ruolo ad un altro livello; per cui, alla lunga, la persona inizia a considerare le attività che ha svolto come fossero degli obiettivi raggiunti.

Per capire meglio la questione è necessario, a questo punto, chiarire cosa si possa intendere per obiettivo. Le definizioni che possiamo ritrovare sono numerose, ma quella che più mi piace utilizzare è questa:

Un obiettivo è la descrizione del cambiamento che desideriamo ottenere.”

Il cambiamento che descriviamo come nostro punto di arrivo, nasce prima dalla valutazione approfondita di un contesto che riteniamo essere perfettibile e, in seguito, diventa generativo di una serie organizzata di azioni (che possiamo anche raggruppare in sequenze coerenti, che chiamiamo strategie), composte da compiti specifici. In questo modo, l’esecuzione dei compiti mi avvicina progressivamente al cambiamento che è stato definito come auspicabile-necessario per il miglioramento delle condizioni pregresse.

Possiamo delineare obiettivi più concreti, oppure salire di livello descrivendo degli obiettivi più astratti: maggiore è il livello di astrazione, più ispirante e onnicomprensivo sarà l’obiettivo, includendo vari sotto obiettivi concreti con esso coerenti. Ad esempio, potremmo definire due obiettivi concreti, come “rendere più efficiente lo smaltimento di componenti elettrici e/o elettronici” e “migliorare i processi produttivi in termini di consumo elettrico”, includendoli all’interno di un progetto di cambiamento più ampio descritto con l’obiettivo astratto “ridurre l’impronta ambientale dell’azienda”. 

Quindi, se una persona si trova coinvolta nell’esecuzione di uno specifico compito (ad esempio legato allo smaltimento dei rifiuti, come la “classificazione e suddivisione degli oggetti elettronici”), ma non vede i collegamenti del suo lavoro con degli obiettivi concreti e/o astratti, non può comprendere a fondo il senso del suo operato. Il giudizio che la persona darà sull’attività che sta svolgendo, inoltre, cambierà se che conoscerà il fine ultimo di ciò che sta facendo: ovvero, potrà essere più motivata capendo a fondo il valore astratto della sua attività. Inoltre, sarà nella condizione potenziale di offrire un contributo creativo al miglioramento del processo di cambiamento in cui è coinvolta, poiché vedrà le connessioni tra le attività assegnate a lei e ad altri ruoli, a differenti livelli. 

Se lavorassimo realmente per obiettivi, avremmo a disposizione un disegno complessivo del nostro operato e di quello degli altri, con un orientamento congiunto degli sforzi di tutti verso direzioni specifiche, come linee che convergono nel punto di fuga di un quadro prospettico. I singoli compiti verrebbero visti per ciò che sono, ovvero delle singoli porzioni essenziali di un progetto più ampio. 

Nella maggior parte dei casi, invece, ci ritroviamo ad eseguire insiemi di compiti affastellati gli uni sugli altri, sui quali veniamo valutati in base alla bontà relativa dell’esecuzione e in base al tempo di espletamento delle attività. La variabile tempo, quindi, diventa fondamentale per definire il quantitativo di compiti che possono essere assegnati ad un individuo in una giornata di lavoro. Più ne fai in una determinata finestra temporale (ad es. otto ore), meglio è: poco importa che abbiano un senso coerente tra di essi o verso i compiti assegnati ad altri. Le conseguenze di questa logica lavorativa, le potete immaginare: frequentemente ci si trova di fronte a persone, o gruppi, demotivate e frustrate poiché hanno smarrito il senso del loro operato, non comprendono chiaramente i confini del proprio ruolo e vedono confusione e sovrapposizioni nella suddivisione delle mansioni con gli altri colleghi/gruppi.

Quindi, per passare da un approccio ad un altro non è sufficiente spostare l’ufficio a casa e offrire una certa libertà di gestione della giornata (seppur gradita e auspicabile). È necessario un cambio di approccio mentale: bisogna passare da una logica di misurazione quantitativa di attività eseguite in una finestra temporale, ad una logica di valutazione qualitativa di scopi coerenti tra essi.
Se non lo si fa, allora lo smart working non sarà altro che l’ennesimo recinto temporale, dipinto a colori brillanti, ma pur sempre un recinto all’interno del quale le persone continueranno a lavorare come hanno sempre fatto.

La sintesi di quanto detto è: cambiare il dove e il quando, non modifica il come.

 

Daniele Baron Toaldo

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